L’invito è un atto sacro: per chi lo propone, significa aprire la propria casa, il proprio spazio personale all’ingresso di un estraneo; per chi lo accoglie, mostrare una parte intima di sé, disporla al confronto e alla messa in discussione. Alba de Céspedes rivolge il suo Invito a pranzo, prima di tutto, alle protagoniste dei diciotto racconti, donne (è sempre la donna al centro della riflessione) il cui traboccante e labirintico mondo interiore è arginato da una realtà sociale che – per paura o ignoranza o cattiveria – esige fedeltà a ruoli e schemi faticosi, innaturali e privi di prospettive.
E in secondo luogo l’invito è per noi, lettrici e lettori, affinché scoviamo quella parte da mettere in mostra, quella che risuona con la vita di queste donne tormentate e ci riconduce alla stessa essenza emotiva. Tutto il libro infatti è lavoro interiore; il momento conviviale alla tavola imbandita non arriverà mai, in nessuna delle diciotto storie: tutto rimarrà sospeso nell’ambito del cuore; ogni slancio verso l’esterno si ripiegherà su sé stesso mutandosi in autoaccusa, o si spegnerà nell’incomprensione e nell’incomunicabilità.
L’arte di Alba de Céspedes, come scrisse il filosofo Lorenzo Giusso, sta nella capacità «di interpretare quelle sospensioni, quei trapassi psichici… di commentare i passaggi inavvertiti, di afferrare gli slittamenti segreti per i quali la volontà si sposta»; nello «scoprire i motivi sottili delle decisioni gravi» ma anche viceversa, potremmo aggiungere, nel saper rintracciare e definire i grandi moventi dell’anima che si celano dietro azioni piccole, apparentemente insignificanti.
Invito a pranzo uscì per la prima volta nel 1955, nel periodo delle opere maggiori di Alba de Céspedes come Dalla parte di lei e Quaderno proibito, capolavori che continuano a rinnovarsi di senso a ogni succedersi di generazione.
Prefazione di Nadia Terranova
Fotografia di copertina di Annie Spratt.